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Decimo dono: dirmi il sacrificale da fare.
Volontà sacrificale Paterna: la terrestre mia passiva inimicale
sul bene inerente l’umana autorità. Ricorso alla
divina Figliale e Paterna beneficale. Il sacrificale cosmico
non dà adito a un paradiso in terra raccontato nel libro
di Genesi cap.2. Due scopi: far derivare da Dio la superiorità
dell’uomo sulla donna, e fare derivare la morte dal
peccato coppiale. Entrambi errori.

Pneumatica magia quella del Visuato Paterno che tocca il
vecchio fideato e tutto lo rinnova. Tocca la preghiera del
dire egoisticale, ed ecco uscir fuori la preghiera del fare
sacrificale. Ci si accosta pregandolo. Quando pregate, voi
dite: Padre nostro che sei nei cieli. Preghiera sacrificale
questa, da dirci e da fare. Bene appellato e collocato. Bene
augurato e perorato. Bene attualizzato: sia fatta la tua volontà
sacrificale: la celeste e la terrestre. Vuole il sacrificale suo

celeste. Vuole pure il terrestre suo e nostro. Il nostro attivo
e passivo. Il passivo cosmico e inimicale. Beni componenti,
beni aderenti e beni inerenti mi può sacrificare il nemico.
Dalla dignità umana siamo passati all’autorità umana. Per
illuminare l’umana ci siamo rivolti alla divina che ce l’ha
mostrata prima nel Figlio, poi nel Padre. Prima la magistrale,
ora la beneficale. Fa essere quello che non era: è la sua
creatività. La Bibbia guarda al cosmo con un solo occhio, e
in più egoisticale, e coglie la sola bontà vitale del cosmo.
Non coglie minimamente la sua bontà sacrificale. Questa
lettura monoculare ha aperto la via a tutte le possibili creazioni
fantastiche religiose, mancanti di qualsiasi fondamento
reale. Un cosmo buono di bontà sacrificale può dare spa-
zio a un luogo paradisiaco? Un luogo è paradisiaco quando
soddisfa a tutti i possibili desideri umani e in modo permanente.
Ora noi al capitolo 2 della Genesi facciamo l’incontro
proprio con la presentazione di un paradiso terrestre.
Contiene il racconto secondo della creazione dell’uomo che
si fa risalire alla tradizione javista, cosiddetta per l’uso del
nome di Javhè. Quel secondo racconto di creazione viene
composto per due scopi:
1) Principalmente: per dare una base sicura, perché divina,
alla superiorità del marito sulla moglie: affermata e
propugnata e praticata dal popolo ebraico.
2) Il secondo è più forte del primo: di voler fornire una
spiegazione divina alla presenza della morte in tutta la
vicenda umana.
(Mutuandolo) Non c’era che da immaginare uno scenario
paradisiaco, collocarvi l’uomo, farlo affiancato alla donna
e porre una condizione assoluta per mantenerselo. Ecco la
vicenda paradisiaca.
1) Dio in Eden pianta un giardino lussureo: piante, alberi
fruttiferi di ogni specie; ma nel cuore del Paradiso due
alberi: l’uno della vita, l’altro della conoscenza del
bene e del male. Vi colloca l’uomo da Dio formato, col
compito di custodirlo e di coltivarlo. Al tutto però
aggiunge un comando proibitivo con una minaccia
punitiva: non mangiarne, se non vuoi morire.
2) L’uomo si diverte a passare in rassegna tutti gli animali
dando loro un nome, ma non ritrova un aiuto che
fosse degno di lui. Addormentato, gli estrae una costola
e con essa fa su la donna. Così l’uomo può affermare
la somiglianza e ancor più la derivazione della donna
dall’uomo. Si comincerà ad affermare che l’uomo è
capo della donna.
3) Davanti all’albero fatidico un astuto serpente fa convinta
la donna che mangiandone i suoi frutti essi conseguiranno
la parità con Dio, essi pure quindi conoscitori
del bene e del male.
Comminato il castigo al serpente, alla donna e all’uomo;
Dio teme che mangiando i frutti i frutti dell’albero della
vita, viva in eterno. Un Paradiso terrestre per affermare la
superiorità dell’uomo e dare spiegazione alla presenza
della morte. Un Paradiso quindi per affermare due cose
sbagliate. Dio concrea uomo e donna; la morte fisica non
esplode col peccato: non castigo, ma dono. Nel cosmo non
c’è quindi alcun paradiso terrestre: lo vieta la Sua bontà
sacrificale.

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